Romanzo disoccupato

Nell’inserto del Sole-24Ore di domenica scorsa è apparso un articolo di Alfonso Berardinelli (magari Jonathan vi spiegherà chi è) che fa il paio con quello di Belpoliti sulla presenza del lavoro nel recente romanzo italiano, e del quale avevamo già parlato intorno al primo maggio.
L’articolo di Berardinelli si intitola abbastanza eloquentemente "Troppi romanzi senza trama né personaggi".

La tesi principale è che, data per scontata "l’insufficienza inventiva e costruttiva dei nostri narratori", in Italia non si fanno romanzi perché noi italiani non siamo moderni, nientemeno.
"La nostra società moderna è stata poco dinamica, non ha creduto negli individui. E quindi la narrativa italiana ha prodotto in prevalenza anti-personaggi inetti, pigri, disperatamente contemplativi e sempre sul punto di annegare nell’irrealtà".

Il peccato originale della narrativa italiana, secondo Berardinelli, è non aver seguito "le strade maestre per catturare il pubblico: il meccanismo della trama e l’effetto di realtà". Ora, io non leggo molti romanzi italiani recenti ma vedo che le classifiche sono piene di Camilleri, Cerami, Ammaniti, Lucarelli, Benni, Wu Ming: tutta gente che le trame le maneggia con una certa facilità, e che anche di realismo, a essere gentili, sa dire qualcosa.
Non si vuole badare alle classifiche, troppo popolaresche? Non sono uno storico della letteratura ma mi chiedo a quali scrittori sta pensando Berardinelli. A De Carlo? A Baricco? A Tabucchi? A Del Giudice? Forse a Eco o Arbasino? A Calvino, Pavese...

Mi pare che Berardinelli taccia un punto: non gli piace nessun romanzo da Tondelli in poi. Beh, regolare dico io, ci può stare.
I giovani, i cannibali, i pulp, i neoromantici... ma per carità! In questi romanzi non lavora mai nessuno, lo abbiamo già visto: per forza che sono tutti "disperatamente contemplativi", proprio come i loro mediocri autori.
Però c’è qualcosa che non ci può stare, aggiungerei. Non direi mai che "il corpo estraneo della cultura italiana [...] è stato il romanzo, nemico dell’invisibile e attento alle cose". Perché mi sembra forzato ridurre la storia del romanzo a queste due coordinate.
Sterne era abbastanza attento alle cose? Proust non è stato un po’ troppo amico dell’invisibile? Che qui ci abbiamo il gran "meccanismo della trama" da salvare. E questo "effetto di realtà" Joyce lo avrà inseguito o evitato? Musil, poi, non vale niente: neanche buono di concludere una storia...

Si finisce di leggere l’articolo di Berardinelli quando si passa sopra una frase apparentemente secondaria e piuttosto didattica: "il romanzo deve provocare uno shock del riconoscimento mescolando realtà e possibilità" (e qui, già che c’è, cita anche Tomasevsmkij).
In quel "deve" c’è tutto il limite del suo discorso, la sua parzialità (e la parzialità è la stessa per cui potete contrapporre altri nomi a quei quattro che ho fatto prima: ad esempio, Hemingway, Balzac o Goethe).
Quel "deve" lo dice Berardinelli (o Tomasevsmkij) e si può essere d’accordo con lui. Ma se non lo si è, se si ha tutta l’intenzione di parlare di personaggi "inetti, pigri e sempre sul punto di annegare nell’irrealtà", il peggio che può capitare è che ci si fa appioppare del "patetico" da Berardinelli sul Sole-24Ore, ché non siamo abbastanza "moderni".

(quanto poi al fatto che noi italiani "anche oggi continuiamo a inseguire un’idea di modernità letteraria doverosa e astratta che ci viene trasmessa da culture sempre un passo avanti a noi" ne parliamo un’altra volta, oppure lascio tutto a Leonardo)

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