I ragazzi non ci credevano.
Appena quarantacinque minuti e gli Strokes erano arrivati e ripartiti. Le luci nella sala si erano già riaccese e uno smorzato reggae si diffondeva dagli ampli esausti dopo le chitarre dei newyorkesi.
No, non ci sarebbe stato un bis, neanche a chiederli in inglese: gli Strokes avevano dato tutto quello che avevano, senza risparmiarsi (cosa non immediata, dopo un anno di tour sold out e tutte le copertine più cool già guadagnate) e senza ostentare troppa presunzione (almeno non più di quella che già li ha portati alla notorietà).
E invece la sorpresa, il regalo a quei ragazzi che parevano non sapere che le 14 canzoni infilate in scaletta erano gli Strokes in versione integrale e anche di più, contando i due inediti.
La maglietta rossa di Fab Moretti ricompare imprevista sul palco, hesitation, sorriso tra i capelli scompigliati e poi si tuffa sulle prime file ancora compatte. Uno stage diving a concerto finito. Questo per dire l’energia di questi cinque ragazzini (e rispondere a chi li vorrebbe solo una band patinata e furbetta).

Ma sono molte le istantanee che restano di questa notte milanese: le giovanissime ragazze aggrappate alle transenne, come vent’anni fa le loro mamme per i Duran Duran; la bolgia inverosimile su Last night (credo di non aver toccato terra per almeno tre minuti, sospinto dalla corrente e dalla risacca di corpi che si spingevano e ballavano uno sull’altro); il coro di New York City Cops e le luci bianche su Hard To Explain a illuminare la platea (saltavi e ti voltavi a vedere centinaia di braccia alzate); la giacca strappata di Julian Casablancas; Nick Valensi ancora più magro e Nikolai ancora più inamovibile dietro il suo basso; Albert Hammond tutt’uno di riccioli neri agitati e corde di chitarra.

Gli Strokes saranno cotti? Questo mi chiedevo preoccupato prima del concerto. Perché avevo tanto insistito per portarci la povera ellegi a una settimana dalla tesi e mi sarebbe piaciuto ne valesse la pena, cazzo.
Devo dire che il suono era pulitissimo, non so se merito dell’Alcatraz o dell’allenamento di mesi di concerti tutte le sere.
La voce di Julian è più limpida rispetto al disco, dove sono gli effetti a farlo assomigliare a un Lou Reed o Iggy Pop.
Moretti e Hammond si conoscono a memoria e i pochi assoli scivolano via secchi secchi, con un tiro impeccabile, mentre (come ci suggerisce Antoine) viene lasciato maggiore spazio ad alcune improvvisazioni di Valensi rispetto all’anno scorso.
Dopo l’apertura con la nuova Meet me in the bathroom arriva il martellante attacco di The Modern Age, che insieme a Is this it, dal vivo non è solamente rallentata, ma enfatizzata, strozzata ed esasperata. Magnifica (e poi “rolling in the ocean” è il primo momento in cui si sente più la voce del pubblico del canto di Casablancas. Concedetemi un po’ di pelle d’oca).
Someday è il pezzo che apre il tumulto della danza e davvero spacca per la sua essenzialità da manuale del rock’n’roll.
Poi tutto il repertorio, infilando anche When it started (presente sull’album nell’edizione americana), la nuova ancora "senza titolo" e una versione accoratissima di Barely legal (con quel salto nella melodia quasi commovente).
Poco teatro, per il resto. Appena un’asta del microfono scagliata contro i fari a fine concerto, quasi a mimare il divertente video di Last night.

Per la cronaca, celebrità notate in sala (momento imprescindibile, per una band diventata famosa per aver richiamato ai concerti attori e modelle a frotte): Cristiano Godano, i Verdena al completo, Massimo Coppola e altri di Mtv Italia, una protagonista del serial “Vivere”.
E poi alla fine, la redazione di Polaroid che finalmente incontra Valido (i blog esistono anche nel mondo reale!) dopo il messaggio “meet me in the bathroom” sul cellulare!
Sudati, sorridenti, spossati, felici.
La notte italiana degli Strokes per noi finisce nel migliore dei modi.

ps: thanx to Damir per l’ospitalità :-)


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