Content nausea

Parquet Courts / Parkay Quarts

Quando ho ascoltato Content Nausea dei Parkay Quarts (leggero slittamento da Parquet Courts) la prima volta mi sono agitato parecchio. È forse la Losing My Edge degli Anni Dieci? È una specie di manifesto ingenuo e fin troppo sincero? Oppure è la parodia di un manifesto, che intende mostrare come la nostra non sia più epoca da proclami e dichiarazioni? Dov’è il trucco? Il torrente di parole rigurgitate da Andrew Savage mi investe accompagnato da rumori dissonanti, elettricità dilaniata, mentre il ritmo insegue una cavalcata furibonda che non arriva da nessuna parte. Oh, come mi emozionano ogni volta gli elenchi, gli inventari, i cataloghi, le liste di oggetti e precetti, Gadda e Petronio. “Too much data, too much tension / Too much plastic, too much glass”. Mi viene solo voglia di credere a tutto. Il candore di versi anacronistici come “The more connected, the more alone” non mi scoraggia: io pretendo che la canzone continui a sparare ad altezza uomo. “Meeting a friend, writing a letter, being lost: antique ritual all lost to the ceremony of progress, like the sensual organs removed”. Come una versione cinica di We Used To Wait degli Arcade Fire senza il salvagente della poesia e dei buoni sentimenti. “Life's lived best when scrolling least“: ehi, Parkay Quarts, sto leggendo i vostri testi su un iPhone, che ironia, vero? “Ignore this part, it’s an advertisement”.
Mi piace che le recensioni di Content Nausea, in pratica il secondo album pubblicato dalla band newyorkese in questo 2014, dopo l’impressionante e acclamato Sunbathing Animal, mostrino quasi tutte un certo disappunto, e stavolta i voti in media restino bassi. Secondo non pochi critici, i Parquet Courts non sarebbero riusciti a concentrare tutta l’energia di cui sono capaci, disperdendo idee e lanciando questa opera verso obiettivi poco chiari. Cazzate, a mio parere. Una band che è riuscita a scatenare tutta l’energia punk (punk qui nel senso di Velvet Underground + Gang Of Four, per dare un’idea) di Black & White, per esempio, non ha bisogno di provare nulla, e se vuole anche azzardare passatempi kraut (cosa sarebbe un remix di Kevlar Walls nelle mani giuste?) continua ad avere tutta la mia fiducia.
Content Nausea: che grande titolo, che immagine perfetta per una battaglia (intellettuale) persa in partenza che forse vale ancora la pena combattere. Ma non è da credere che i Parkay Quarts siano dei puri sognatori. In Pretty Machines, che nella mia testa è un po’ il proseguimento della title track, Savage è consapevole che nemmeno la sua voce può chiamarsi fuori: “I've been tricked into buying quite a number of things / Yeah, bullshit and dreams”. Del resto è un semplice musicista: “Punk songs: I thought that they were different / And I thought that they could end it / No, no it was a deception”. Quanta severità. Forse sono proprio i modi severi di queste canzoni, anche quando sembrano andare alla deriva, a farmi considerare questo disco una spanna sopra molta altra musica contemporanea. “Still, you think that you're not a servant / You think that you can avoid / The stylish institution, worshiping illusions / Things you thought you could destroy”. Questo disco è il ragazzo dall’aria un po’ cupa che vendeva Lotta Comunista davanti al portone dell’università, e quella volta che hai deciso, così per cambiare, di fermarti a fare due chiacchiere hai scoperto che non ci credeva neppure tanto, ma almeno sapeva mettere in fila due idee critiche che valeva la pena ascoltare.
Aggiungo poi che accanto a quest’anima un po’ paranoica e un po’ lucida, e che non molla mai un suo certo tenace senso dell’umorismo (quale spazio rimane oggi a chi dovrebbe essere definito anti-establishment?), i Parkay Quarts si rivelano anche dei sorprendenti narratori: la chiusura di Uncast Shadow Of A Southern Myth, che rimanda a Dylan, e la kafkiana The Map sono due veri e propri racconti, scritti con una cura e una nettezza che mettono ansia. Era chiaro fin dalle prime parole del disco: “Everyday it starts / Anxiety / Anxiety / Anxiety”. Disco dell’anno, nel senso che consegna alla storia un’istantanea di quest’epoca a fuoco come poche altre. “Punk for the millennials” sono stati definiti i Parkay Quarts, e forse è un’etichetta da non considerare con l’abituale sarcasmo.

(mp3) Parkay Quarts - Pretty Machines

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