Do what you want to, it's what you should do

Flowers - Do what you want to, it's what you should do

Bisognerebbe ascoltare soltanto musica che ci fa saltare per aria, stringere i pugni e prendere a calci i giorni là fuori. Anche se non servirà, anche se quattro accordi non potranno mai davvero risolvere tutto quello che non è, o far splendere il sole in questo grigio cielo di ottobre, né darti indietro il tempo che hai sprecato, a volte hai solo bisogno di questa lotta, di tenere stretta una canzone al cuore: è quello che conta e resterà. La tua canzone è tua per sempre. La scarna musica dei Flowers parla di questo. Dentro storie d’amore e disperazione, in apparenza così elementari e adolescenziali, quelle parole sempre sul punto di rompersi in lacrime e quelle melodie dolenti stanno dicendo quanto è ostinato ancora il desiderio di aggrapparsi a una scintilla fragile. E se affondiamo non ci sarà modo più bello e grandioso di affondare. Nella traccia di apertura, Young, Rachel Kenedy mette subito in chiaro le proprie drastiche intenzioni: “I would never tire of this / and if I do, then bury me beside you”. C’è tutto il dramma plateale della giovinezza, con i suoi pessimismi cosmici e la sua infinita tenerezza. Ma c'è anche qualcosa che, da quell’età in avanti, non è più possibile cogliere con la stessa franchezza e la stessa grazia inconsapevole: quella dedizione e quei bruschi cambi di direzione, le decisioni assolute prese nel giro di un attimo, il vento freddo in faccia e piangere sorridendo. La spiegazione è nella meravigliosa Forget The Fall, che racchiude il verso che dà il titolo all’album: “Do what you want to, it's what you should do”, e aggiunge “that’s the fun of being young”. Com’è ovvio, è un divertimento pieno di problemi e contraddizioni: “Leave me alone, but don’t leave me lonely / pick up the phone, but please don’t speak” (dalla straziante Lonely). Eppure, chi non darebbe subito indietro la propria presunta maturità, il proprio pacato giorno-dopo-giorno, per un minuto di quella musica celestiale, di quel caos cieco ed entusiasmante, di quel batticuore che sembra eterno?
I Flowers devono buona parte della loro potenza alla voce della Kenedy, che è davvero qualcosa di angelico, tutta timidezze e slanci. Lei suona un basso distrutto con una corda sola e vorresti abbracciarla e proteggerla appena si presenta davanti al microfono. Jordan Hockley alla batteria percuote ritmi cupi, mentre Sam Ayres alla chitarra e qualche synth riempie tutto quello che resta da riempire, sapendo farsi da parte al momento giusto. La produzione di Bernard Butler forse smussa un po’ troppo gli spigoli rispetto ai 45 giri che ci avevano fatto conoscere e amare il trio londinese, ma questo disco resta in ogni caso un debutto davvero imponente. C’è il minimalismo di certi Young Marble Giants, c’è l’impetuosità tutta shoegaze, un tocco eccentrico degli Ottanta dei Cocteau Twins, l’immancabile malinconia Field Mice, l’indiepop secco ma incisivo alla Beat Happening. Ma soprattutto c’è, grandiosa e perdente, una musica che fa stringere i pugni e saltare per aria, come si conviene a ogni età.

(mp3) Flowers - Lonely

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