Born to be a rebel

Vic Godard & Subway Sect

Allo scoccare della mezzanotte, Vic Godard e i suoi Subway Sect stanno attaccando la seconda canzone in scaletta. Vic si toglie gli occhiali da vista, si china per riporli con cura in una custodia di pelle e quando salta in piedi si scatena in uno strano ballo senza molta grazia, agitando le braccia ovunque, a ginocchia piegate e occhi chiusi. Born To Be A Rebel suona forte, più sciolta che su disco, con propulsione Northern Soul e coretti che sembrano citare le Fascinations di Girls Are Out To Get You, e Godard si sta lasciando proprio trasportare. È in quel momento che noti che indossa un paio di Etnies slacciate, pantaloni bianchi molto baggy e una disimpegnatissima polo a righe: potrebbe essere arrivato da Londra in skateboard, non farebbe una piega. Certo, ci sono tutti quei capelli bianchi, e qualche dubbio ti sorge. Mi torna in mente quella gag di un video dei Beastie Boys, in cui loro erano truccati da sé stessi anziani e andavano ancora in giro per strada con la stessa aria spavalda. Ecco, anche qui stasera, dietro le rughe e la calvizie, avverti l’identico sguardo fiero che potevi trovare nelle fanzine di epoca Clash o Sex Pistols, band con cui Godard ha condiviso gli inizi.
Una buona parte dei pensieri che ti girano in testa durante un concerto come quello di stasera al Covo è quanto ti senti a tuo agio a vedere ballare sopra un palco uno che ha circa l’età di tuo nonno. E non stiamo parlando di una celebrità come Mick Jagger, o un altro di quei bizzarri monumenti che sembrano resistere al tempo al solo scopo di contraddirne l’esistenza: qui abbiamo di fronte un postino inglese in pensione. Ecco, una domanda che ci si potrebbe fare è fin dove arriva il doveroso tributo ai padri fondatori e dove comincia l’accanimento terapeutico, il rifiuto di arrendersi agli anni che passano, di accettare il presente per quel che è. Penso a quei concerti memorabili tipo Nikki Sudden o Eugene Kelly davanti a poche decine di persone sempre qui al Covo, o Jonathan Richman a Ravenna, in un Bronson incredibilmente mezzo vuoto, qualche inverno fa: cosa ci spinge a cercare di ritrovare a ogni costo, qui e ora, una piccola luce che aveva brillato fortissimo così tanto tempo prima. Forse è un miscuglio di riconoscenza e consapevolezza di essere, dopotutto, piuttosto fortunati; un modo per aggrapparsi, almeno per mezz'ora, a una storia che sta franando da tutte le parti; il desiderio molto umano di trovare qualche volta dei punti fermi.
Chiamalo stile, chiamalo carisma, ma quando te lo trovi davanti sfoggiato in questa maniera, come è successo in questo sabato nel vecchio tempio bolognese, devi solo stare ad ascoltare. Vic Godard avrà anche l’età di tuo nonno, ma non si tira indietro quando c’è da cantare Stop That Girl e subito dopo Get That Girl, e ci scherza pure sopra. La sua ultima raccolta 1979 NOW! ripesca e rilegge tutte le influenze Northern Soul della sua lunga carriera, e nelle note dell’album scrive fitto titoli di libri e di film e nomi di band che lo hanno ispirato, e lo fa ancora con lo stesso entusiasmo di un ragazzino (o di un disco dei Comet Gain), che deve spiegare tutto e tutto in una volta. Da uno nato con il punk (la seconda parte del set di stasera è stata tutta un crescendo, fino a Nobody’s Scared ovviamente), e che poi è arrivato a toccare il jazz e il pop più raffinato, io tutto questo lo prendo come una bellissima lezione, una musica che è una vigorosa e salutare scossa al morale.

[foto via instagram]


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