"Yes, we are all individuals!"

Primavera Sound Festival by deepskyobject

«La musica non ha più la forza di rottura perché il suo stesso pubblico non è interessato a creare una cultura di opposizione»: lo sostengono Simone Dotto e Hamilton Santià in un post su Infinitext in cui ragionano su quello che è diventato ora un evento oramai di massa come il Primavera Sound Festival.
La tesi, mi sembra di capire, è che l'assimilazione dell'underground nel meccanismo degli sponsor e del mercato è finalmente compiuta e integrale quando anche l'alternativa (o qualche surrogato di essa) viene erogata e pagata come un prodotto tra gli altri. Il riflesso dell'omogenizzazione del mercato sarebbe l'eterno presente di Retromania in cui sguazziamo da un po', indistinguinbili, anestetizzati e hipster.
Probabilmente non ci stiamo dicendo niente di nuovo, e Dotto e Santià stanno soltanto aggiornando l'argomento alla loro generazione, alle loro esperienze sul campo. Altrettanto probabilmente c'è un "bicchiere mezzo pieno" che meriterebbe di essere preso in considerazione almeno un po', ma non ne voglio parlare qui, perché quel post su infinitext mi ha fatto tornare in mente altro: un'intervista di Sandro Giorello agli A Classic Education di un mesetto fa su Rockit. Era una delle più belle interviste alla band bolognese che abbia letto, capace di mettere a fuoco parecchie cose e di tirare fuori un ritratto ricco di una delle miglori indie band che abbia il nostro Paese. Eppure tutto quello di cui i lettori hanno parlato nei commenti sono stati i soldi. Non c'erano i caratteristici hater da forum, non c'erano i sostenitori della "musica da esportazione". No: si è parlato solo (e pure a sproposito) di cifre di cachet, supposizioni campate in aria su quanto deve guadagnare un musicista oggi, di lavoro e bollette. Una cosa deprimente. Tutto qui quello a cui pensate quando ascoltate un disco?
Lo so: una manciata di commenti su Rockit non sono un termometro attendibile per capire cosa sia oggi il "pubblico indie" (e uso ancora questa parola per come l'ho usata per dieci anni su questo blog: non sarà una canzonetta estiva o qualche divertente comico di Facebook a farmi smettere, per ora). Ma lo stesso mi ha stupito il cambio di prospettiva: nei confronti di un gruppo e forse della musica in genere c'è lo stesso atteggiamento disincantato e "professionale" di quello tra competitor sul lavoro, un'aria arida "da ufficio". Siamo nel terziario del Rock. Nessun odio, nessun entusiasmo, solo consapevolezza di obiettivi da raggiungere, costi da tagliare, lo sbrigativo "I see what you did there" distaccato e asettico che ormai ricopre tutto il paesaggio. Dal punto di vista del pubblico sembra un po' un grande McDonald's. E dall'altra parte non si avverte nessuna forte ambizione: ripenso alla vecchia rubrica "Quit Your Dayjob" su Stereogum, o al nostro Fossifigo di Pronti Al Peggio, tutta roba comunque chiusa.
E qui torno al post di Dotto e Santià. Non c'è motivo di cercare l'agognato conflitto se le parti indossano la stessa divisa, se la maniera di ragionare è identica. Anche l'annoiato report da Barcellona di Vice Magazine finiva per lamentarsi di tutto questo essere innocui.
Qualche giorno fa il vecchio Billy Corgan si è lanciato nel velleitario tentativo di strappare la maschera alle "Pitchfork people", ma in conclusione ragionando ancora in termini di coro e fuori-dal-coro. Alla domanda "Where’s the rebellion right now?" non ha saputo dare una risposta che non fosse un debole "io". Eppure aveva notato che si arriva a un punto in cui "the critical mass of subversion comes in": e dato che di critica e di subversion non se ne vedono molte, resta mass proprio come in "mass market".
Il pubblico del Primavera di cui parlano Dotto e Santià non si muove in massa perché obbligato, ma perché si sta sinceramente godendo l'intera baracca. That's entertainment e tutto il resto. E quello che tiene in piedi la baracca sembra essere, al tempo stesso, l'adesione e la presa di distanza, la possibilità di partecipare sentendo però di farlo "con ironia". Un prodotto che ti convince di non averlo comprato. Una situazione di stallo in cui non conta tanto che "l'indie si è svenduto al mainstream" (so Nineties!), ma che alla fine l'alternativa sembra proprio volere assomigliare a tutto il resto ("quanti soldi fai con l'indie?"). Il tasto "Like" non più come "mi piace" ma come "uguale".

Il titolo del post viene da Life of Brian dei Monty Python
La foto è di deepskyobject
Grazie a Nur

Commenti

GP ha detto…
Riflessione a margine: sarebbe interessante capire in che periodo e in che contesto storico la musica (quale musica?) ha assunto il ruolo di "forza di rottura" e il pubblico quello di "forza di opposizione" (a cosa?). Magari la risposta a una domanda che può sembrare banale potrebbe riservare alcune sorprese...
a. ha detto…
volevo mettere LIKE poi ho visto che qua non è possibile, hai tu forse trovato la via d'uscita a tutto questo?
alberto m ha detto…
gran bel post. sante parole, enzo.
a.
mb ha detto…
anch'io stavo pensando a quello che diceva il primo commentatore. quando c'era la cosiddetta "musica di protesta", le cose non sono cambiate e il coltello dalla parte del manico ce l'hanno sempre i politici o i dirigenti. anche se è politico qualsiasi atto, non è detto che riesca a cambiare il mondo. non per questo non bisogna tentare di cambiarlo, o per lo meno analizzarlo, come fa bene questo post.