We can't be beat

The Walkmen

Dopo le scosse di martedì 29 maggio stavo guidando per le campagne tra Modena e Ferrara. La strada aggirava alcuni centri storici chiusi, passando per quelle zone di fabbriche e capannoni che si vedevano sempre sui giornali e su twitter. C'era un bel sole di fine primavera e mentre guidavo ascoltavo la radio e avevo quei pensieri frivoli come può averli chi non è costretto ad abitare in una tenda perché il proprio piccolo e tranquillissimo paesino di provincia è stato dichiarato inagibile o qualcosa del genere. Ascoltavo Caterpillar su Radio2 e pensavo che erano bravi a fare la radio in quel momento, quando nessuno ha voglia di chiacchiere vuote. Coinvolgevano chi era (di nuovo) nell'occhio del ciclone e cercavano di far capire la situazione a chi, anche già a pochi chilometri di distanza, viveva su un pianeta del tutto diverso. Evitavano toni da tragedia e riuscivano anche a mettere buona musica, e a un certo punto senza dire una parola hanno fatto partire We Won't Be Beat, la canzone che apre il nuovo album dei Walkmen, Heaven.
Fermo all'incrocio davanti alla chiesa crollata di Buonacompra, la voce intrepida di Hamilton Leithauser che cantava "It’s been so long, but I made it through / We'll never leave / We can't be beat", non ho potuto far altro che scoppiare a piangere. E al tempo stesso, sapevo che quella era soltanto la breve reazione emotiva di chi non è davvero dentro le cose, una semplificazione. Sono ripartito e prima di arrivare mi sono assicurato di avere le guance asciutte.

Da quel pomeriggio non ho ascoltato molti altri dischi. Cerco di tenermi aggiornato per quel che posso, come tutti, ma quello non è ascoltare dischi. La verità è che in questi giorni pesanti ho soltanto voglia di sentire la voce di Leithauser che mi ripete “remember, remember all we fight for”. Ho letto nelle recensioni che per la band newyorkese si tratta di un disco in qualche modo “pacificato”, un passo ulteriore rispetto alla maturità raggiunta con Lisbon di due anni fa. La musica ha la cadenza solenne del classico, e oltre ai consueti riferimenti a Springsteen o Dylan si citano anche autori degli Anni Cinquanta. Merito della produzione di Phil Ek e della collaborazione con Robin Pecknold dei Fleet Foxes, certo, ma a un altro livello, quello che mi colpisce più di tutto in questo disco, quello che in qualche modo (e perdonate l'ulteriore semplificazione) mi aiuta è il suo essere qualcosa tra il disincantato e il virile, serio e poetico al tempo stesso, straordinario e umano. Parole e accordi che dovrebbero suonare risaputi dentro queste canzoni trovano una forza che mi comunica forza. Perché so che per ogni cupo verso "Gone are the flames / Gone is the world of mystery" (in Love Is Luck) c'è una strofa che ribatte "These are the good years / The best we'll ever know" (Heartbreaker, una canzone che proclama "riscossa" dalla prima all'ultima vigorosa nota).
Questo disco è il desiderio di alzarmi in piedi, stringere le mani di chi mi è vicino, guardare una cosa a pezzi e vederci dentro una cosa che rinasce. Un disco che cancella la paura.
E chi se ne importa se non è il migliore disco dei Walkmen, o se i Walkmen possono osare ben di più, e altri giudizi che si leggono in giro:

Our gilded age may come and go
Our crooked dreams will always glow

(mp3) The Walkmen - We Can't Be Beat

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