Qualcosa che Bruno avrebbe raccontato meglio

Da mesi, dietro al posto dove lavoro stanno costruendo un grande palazzo. È lungo quanto un campo di calcio, e ormai è diventato alto come la gru gialla che cigola ogni momento del giorno.
Le impalcature rosse e grigie lo avvolgono tutto e c'è un cortile cosparso di furgoni, mucchi di sabbia e pozzanghere, con una voragine sulla destra: probabilmente l'ingresso dei futuri parcheggi sotterranei.

Io ci passo davanti in pausa pranzo, in questi giorni assolati e gelidi di gennaio, e cammino con il naso in su dall'altra parte della strada.
Ascolto sempre le urla prolungate che i muratori si lanciano da un piano all'altro, altissime sopra la mia testa: dialetti irriconoscibili, bestemmie, battute e risate di gente che lavora, che lavora per davvero e ha tirato su quel palazzo enorme.

Ma non li vedo mai. Non li ho mai visti una sola volta.
Sento le loro voci, quelli che si chiamano, quelli che scendono a mangiare, quelli che avvertono che sta salendo una cosa: è un continuo contrappunto, un coro di nomi, esortazioni, imperativi e imprecazioni che si sovrappongono.

Oggi, con quel sole, mi è sembrato un gigantesco albero, e i muratori se ne stavano appollaiati sui rami a cantare.
Chissà se qualcuno la mattina riesce ad arrivare al lavoro volando, evitando il traffico della tangenziale.

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