Le redazioni di Polaroid e Leonardo sono in partenza per la penisola iberica a caccia di radio locali. Così anche il blog va, mon dieu, in vacanza. Speriamo di incontrare sul cammino postazioni pronte ad accogliere il nostro diario estivo: ma intanto Polaroid vi augura buone vacanze con un regalo.

Qualcosa da leggere e perchè no, da ascoltare.



Polaroid alla radio


Appena mi alzo il cielo minaccia pioggia. Dalla terrazza: vista trecentosessantagradi, occhio di pesce a comprendere il tutto. Destra: skyline industriale tra vapori chimici. In medio stat: un pugno di gelsi di urbanizzazione primaria, nel controviale biciclette tipo erre lente (deve essere una domenica senz'auto, senz'altro). Sinistra: merli in silenzio laterizio, rivestimento di sacco, fuori fuoco liquido per umidità e fossato, anche. Dietro: beh, dietro si sa, dietro c'è qualche animale della mitologia dei boschi americani, qualche verso di una poesia di Montale. Certo. Ci vorrebbe una foto alle spalle, presa proprio l'istante prima che l'hide-behind scappi e che la poesia si sfili dal campanile in bilico della chiesa di San Benedetto.
Forse non sarò abbastanza tempestiva o farà prima la pioggia e subito noi avremo troppi anni e coraggio di meno.

Sergio è seduto sui gradini della stazione. Ferrara è un paragrafo breve e l’interregionale per Bologna parte fra poco. Tiene tra le dita la foto di Alice: orto botanico, mezzogiorno, ninfee.
Sergio gira l’Europa scrivendo una guida turistica radiofonica: ogni città è una selezione di frequenze, il criterio comincia casuale, poi diventa sentimentale, trovando nel caso la ragione. Sergio ha il privilegio di poter raccontare ogni città ascoltandola, un po’ come mettere in musica un’immagine, suonarla.
Infila la polaroid tra due pagine su cui ha disegnato la mappa dell’Europa per stazioni. Aveva lasciato l’Italia per ultima, capitolo difficile, troppo vicino a casa. Ma questa foto di Alice non era prevista: prevedibile ma rimandata prima di ogni tappa.
Il viaggio era stato tutto un cambiare di stazioni. Si era spostato come l’asta gialla della radio lungo le traversine dei binari. In ogni atrio, dagli altoparlanti chiamavano le città e le città uscivano dalle sue cuffie.

Nella polaroid-retrovisore sono finiti: alcuni dei miei capelli, un parapetto grigio, vasi di rose rosa, lampade cinesi appese ad un filo, una poltroncina settecento con i piedi dorati, un pavimento galleggiante, oleandri bianchi, sul fondo la lanterna di un campanile in bilico.
Questa sera la racconto che fuori è sereno e cerco di dirti che questa immagine è a suo modo un falso fuori tempo. Poi accendo una sigaretta nel microfono, mentre tu scegli una canzone che saprà insieme di conglomerato cementizio armato e carta di riso.
Tu pensi alla musica e non capisci l’effetto destabilizzante, sapere cosa c’è alle tue spalle, nell’attimo in cui l’acido si compone, all’istante. Poi l’istante esce dalla macchina e tieni tra le dita la memoria polaroid.

L’ultima immagine è di sera. Dentro la Caffeteria Araba di Via Centrotrecento Sergio aspetta che Jamil prepari il suo felafel. La voce alla radio è quella di Alice. Sergio l’ha riconosciuta passando sotto i portici e ha pensato che aveva fame.
Alice sta parlando di una foto che non è riuscita a qualcuno che tace e risponde mettendola in musica.
Ma Sergio intuisce una differenza, tra la foto che Alice ha davanti agli occhi e la sua voce che non riesce a descriverla, la stessa differenza che passa tra il ricordo di lei e il fatto di incontrarla per caso alla radio, alla Caffetteria Araba di Via Centrotrecento, a una distanza cittadina qualunque e in qualunque modo irrilevante. Lo spazio di Sergio si misura in altre unità: frequenze modulabili in memoria, come polaroid alla radio.

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